1.4.21

Autenticità e rigore assoluti

Igor Stravinskij (1882-1971) 

Quest’anno cade il cinquantesimo anniversario della morte di Igor Fëdorovic Stravinskij (1882-1971). Colgo quest’occasione per fare alcune riflessioni sulla sua musica. Le mie saranno, per prima cosa, considerazioni generali, che riprendono alcune osservazioni espresse in svariate circostanze e che vengono raccolte nel presente articolo.
Sul maestro russo ho solo una cosa da dire: lo ritengo semplicemente il più grande compositore del ventesimo secolo. Certo si tratta di un parere personale, con il quale si ha il diritto di non essere d’accordo. Probabilmente affermare che Stravinskij sia in assoluto il più grande del Novecento è azzardato: penso a certo Bartók, sicuramente non da meno, a Prokofiev, o al Debussy di En Blanc et Noir, Jeux, La Mer, il Berg di Wozzeck e Lulu, lo Shostakovic delle opere e delle sinfonie – l’urlo orchestrale nel finale della IV, poche battute prima della conclusione, è una delle cose più grandiose e terrificanti della musica del ‘900. E, tra i compositori più recenti, penso a Ligeti, maestro ineguagliato del secondo Novecento. Tenuto conto di questi altri grandissimi compositori, come dicevo, sostenere che Stravinskij è il più grande può apparire piuttosto azzardato. Ma la sua musica è la più vicina a me: quella che più si avvicina al mio sentire. Ecco il perché.
Stravinskij ha la rarissima capacità di metterci a contatto diretto con l’inconscio – personale e collettivo – e di attingere da esso. La sua musica è spontanea e imprevedibile, sempre. Ritengo che l’artista più libero sia colui che è più vicino al proprio inconscio e a quello collettivo, insomma in contatto diretto con lo Spirito. E, a mio avviso,  nessuno come il compositore russo è stato capace di questo nel corso del Novecento. La sua libertà è assoluta, la sua freschezza è continua, incessante. La straordinaria disinvoltura con cui passa da un’idea all’altra (la connessione tra le quali è spesso non così immediatamente visibile, ma risulta essere comunque di una continuità e coerenza assolute) è assolutamente unica. Stravinskij mi commuove sempre. La sua musica è grandiosa. Le sue note possiedono la forza delle cose dette per la prima volta, e la sua è la perentorietà della parola definitiva, oltre la quale è impossibile andare.    
L’arcano, il magico, il fiabesco e l’universale. La totale libertà e il rigore assoluto. Stravinskij ci mette a contatto con le zone inesplorate del nostro inconscio, portandole a livello di coscienza, e ci conduce in mondi di cui non immaginavamo l’esistenza.
Sentivo e scrivevo ciò che sentivo. Sono il vaso di elezione attraverso cui è passato Le Sacre”. Queste parole dello stesso Stravinskij bastano, a mio avviso, a confermare ciò che sostengo: ossia una completa, totale, assoluta adesione al proprio inconscio, al proprio sentire più profondo. Mi si obietterà che tutti i grandissimi artisti attingono dal proprio inconscio, ed è proprio questo che li rende unici e grandissimi. Indubbiamente, è vero. Ma Stravinskij, secondo me, suscita le energie primigenie e ancestrali più recondite, alla base del sentire collettivo, di tutti noi. E nell’abisso della nostra natura più profonda vi è ciò che di più primordiale e istintivo ci appartiene: la verità, la sincerità, l’autenticità. Ecco: la sua musica suona sempre autentica e immediata e tocca verità insondabili, non affermabili in altro modo se non attraverso la musica stessa (ed è così perfettamente comprensibile il famoso quanto discussissimo assunto stravinskiano: la musica è incapace di “di esprimere niente altro che se stessa”).
Non solo, la musica di Stravinskij risulta autentica e immediata, non filtrata, a dispetto della capillare, maniacale costruzione e organizzazione formale. L’unicità di questa musica è tale che essa possiede l’immediata freschezza dell’improvvisazione nonostante il controllo più assoluto di ogni parametro ed ogni microevento: ed è proprio questa caratteristica che concorre a renderla ancora più miracolosa.
Tali considerazioni generali vanno perfettamente d’accordo con un riferimento più specifico alle singole opere stravinskiane: ai suoi più noti capolavori, ma anche ad alcuni suoi lavori meno famosi sparsi in tutta la sua produzione, da quella giovanile a quella più tarda. Se ne possono fornire diversi esempi.
Nella Pastorale, del 1907, c’è già tutto Stravinskij. Nostalgia, ironia, tenerezza, intelligenza, e l’amore infinito per la musica popolare. È vero che la scelta timbrica definitiva (violino e quattro strumenti a fiato, con l’immancabile corno inglese, così idiomatico nella musica di Stravinskij) è del 1933, in piena stagione neoclassica: ma è anche vero che la musica è del 1907, pressoché agli inizi della sua avventura compositiva ed è già un capolavoro.
Nello Scherzo Fantastique (1907) è incredibile come si sentano Wagner, Cajkovskij, Skrjabin, Debussy, perfino Richard Strauss. Eppure è già Stravinskij in toto. Questo pezzo è la prova generale dell’Oiseau de Feu (balletto scritto nel 1910 con il quale Stravinskij accede di colpo alla fama internazionale) e ne possiede, in modo assolutamente straordinario, la stessa magia incantatoria, la scintillante brillantezza timbrica e il fuoco ritmico. Si incomincia così a vedere come in Stravinskij la compenetrazione tra materiale musicale e timbro tenda alla perfezione. Non si potrebbe immaginare un’orchestrazione diversa da e migliore di quella da lui realizzata. E quando egli stesso ne realizza una versione differente, è altrettanto perfetta, suona sempre come la migliore possibile. La musica nasce già rivestita del timbro ideale, anzi costituisce una sola cosa con quest’ultimo. Nella musica di Stravinskij si attua la totale, definitiva integrazione dei parametri. Egli è veramente un mago, l’alchimista per eccellenza.
Zvezdolikij (Le Roi des Étoiles) è uno dei pezzi più sconvolgenti ed enigmatici di Stravinskij, grandioso e incredibile capolavoro scritto a soli ventinove anni nel 1911. Non viene quasi mai eseguito a causa dello spiegamento di forze impressionante (orchestra a 4, con otto corni) rispetto alla breve durata del pezzo (sei minuti scarsi) e della spaventosa difficoltà della parte vocale. Qui l’immaginazione compositiva supera ogni limite; la libertà e la fantasia sono assolute (anche se, nel rigore compositivo, c’è un incredibile controllo del materiale). E comunque alcune costanti stravinskiane – che si ritroveranno in tutta la sua produzione, fino alla fine – sono sempre evidenti: l’impiego della scala ottatonica, la sovrapposizione 3a maggiore/3a minore, le stratificazioni armonico-timbriche per blocchi e masse.
Petruška, del 1911, è l’opera in cui il “suono” Stravinskij comincia a identificarsi, anzi diventa una sola cosa, con il “suono” russo che ritroveremo in tanti lavori del primo periodo del compositore, fino al 1920, ma anche in seguito, come un marchio di fabbrica, un tatuaggio sonoro che caratterizzerà sempre la musica del Nostro. Su questo balletto sono stati versati mari d’inchiostro, e la vicenda di Petruška “L’infelice eroe di tutti i paesi e di tutte le fiere”, citando le parole dello stesso Stravinskij), della Ballerina e del Moro è ormai troppo nota per riportarla qui. E nemmeno mi dilungherò, ad esempio, su ciò che ormai è diventato quasi luogo comune: il Petruška akkord, il celeberrimo accordo bitonale a distanza di trìtono formato da Do maggiore/Fa# maggiore, i cui costituenti appartengono alla scala ottatonica semitono/tono do-do#-re#- mi-fa#-sol-la-sib. Questo accordo è stato fin dal suo apparire come la trovata che costituisce la più evidente originalità di questo balletto, la sua invenzione armonica più innovativa. Tutto vero, senz’altro. Ma ciò che caratterizza il suono “mitologico” di Petruška e che diventerà, come detto sopra, una delle armi più tipiche dell’arsenale stravinskiano, è una serie di straordinarie combinazioni di accordi formati da una fusione di tonica e dominante o tonica e sottodominante o sottodominante e dominante: oppure agglomerati armonici che presentano un intervallo perfetto (4a o 5a, intervalli che garantiscono una sonorità “tonda”, “mitica”) intorno al quale ruotano come satelliti altri intervalli che presentano una giusta, equilibrata dialettica tra consonanza e dissonanza.
Il balletto Le Sacre du Printemps (prima rappresentazione, 29 maggio 1913) è la partitura più famosa e più discussa di Stravinskij. Soffermarsi su di essa sembra superfluo, dato l’oceano di inchiostro riversato su questo capolavoro, fin dalla sua apparizione. Del Sacre tutti hanno già detto tutto, anche troppo: ed è per questo che non entrerò nei dettagli della partitura, né che mi riferirò direttamente a questo “monstre” del ventesimo secolo. Posso dire comunque che quest’opera è forse la più dirompente e radicale del Maestro russo e ha fortemente influenzato un numero incalcolabile di compositori, anche grandissimi (basti pensare alla Suite Scita di Prokofiev o al Mandarino meraviglioso di Bartók).
Sinfonie di Strumenti a Fiato, del 1920 (scritto per onorare la memoria di Debussy), appare come un pezzo totalmente astratto e allo stesso tempo straordinariamente evocativo e commovente. La forma è data da episodi che si concatenano attraverso rapporti temporali e ritmici proporzionali, che anticipano di trent’anni le modulazioni metriche di Elliot Carter. È senz’altro l’opera di un genio, un’opera di astrazione, perfezione formale ed evocazione pura: sintesi ineguagliabile.
The Rake’s Progress (1951) è percorsa da brividi metafisici e sulfurei. E mi ha sempre profondamente commosso. La fusione tra musica e parola è straordinaria, e il sentimento di cui quest’opera lirica è pervasa è sottilmente caldo e malinconico, fino a toccare punte di tragicità. Veramente, chi dice che lo Stravinskij neoclassico è freddo e calcolatore, non ha capito niente. Ci sono accenti di tenerezza e tragedia, ironia e squarci metafisici, commosso lirismo e senso del trascendente. Ma bisogna saper leggere attentamente fra le righe: è più importante ciò che non si dice di ciò che si dice.
Agon, balletto finito nel 1957, è uno dei pezzi più stupefacenti scritti da Stravinskij (a 75 anni, si noti) e dell’intero ventesimo secolo. È una summa teologica, sintesi suprema di stili musicali – dalle fanfare per ottoni nello stile di Gabrieli a elementi seriali – con straordinarie novità di orchestrazione, anche per Stravinskij stesso. La compenetrazione tra diatonico e cromatico è di un equilibrio perfetto, e la capacità del compositore di (ri)creare stili e atmosfere, ripercorrendo la storia a suo piacimento e con consapevolezza ed estrema libertà inventiva, è veramente unica.
Requiem Canticles, del 1966, si erge come il capolavoro estremo: testamento spirituale e pezzo tra i più sconvolgenti dell’ultimo periodo stravinskiano. Si è dinanzi a una sobrietà, una misura, un equilibrio che però sono pervasi da una continua luce metafisica. Qui, secondo me, nulla si dice più del necessario e ogni gesto possiede una potenza perentoria, fino a raggiungere l’essenziale depurato di ogni scoria. Il “Libera me” e il Postludio finale sono già “oltre”, al di là di ogni terrena cura, insomma squarci o bagliori di luce sull’Aldilà, come li avrebbe chiamati Messiaen. Questo pezzo mi fa venire in mente la Pietà Rondanini di Michelangelo, ovvero il Gesto oltre il quale non è possibile andare. In fondo si è di fronte alla fine di un’incredibile vita, e credo che Stravinskij stesso sapesse di aver scritto sostanzialmente il proprio testamento, sopravanzando in densità, qualità e spiritualità la musica di moltissimi colleghi ben più giovani di lui.
Concludendo, queste osservazioni non vogliono essere verità insindacabili, ma semplici testimonianze di un compositore che adora la musica di Stravinskij, la considera uno dei patrimoni dell’umanità e vuole condividere questo entusiasmo e questa gioia della continua (ri)scoperta con i lettori. Vuole essere anche un invito a cercare, ascoltare, condividere i capolavori di uno dei più grandi creatori della Storia della Musica.
Come chiosa finale riporto alcune importanti parole di Erik Satie, pronunciate in una conferenza del 1922: “Chi sono io, non lo so, ma quel che so, invece, con sicurezza, è che il compositore di cui vi ho parlato è uno dei più grandi musicisti che siano mai esistiti. Acclamato sia il nome di Stravinskij!”.   

Rossano Pinelli 

Articolo apparso su Brescia Musica 171, febbraio 2021